ESCLUSA L’EQUIPARAZIONE ECONOMICA TRA PERSONALE DELLA (EX) IX^ QUALIFICA E QUALIFICHE DIRETTIVE AD ESAURIMENTO

headerAL PERSONALE PROVENIENTE DALLA IX QUALIFICA FUNZIONALE, POI INQUADRATO NELL’AREA C, NON SPETTA IL TRATTAMENTO ECONOMICO DELLE QUALIFICHE DIRETTIVE AD ESAURIMENTO

(Cass. civ., Sez. Lavoro, 29/04/2013, n. 10105)

1. La distinzione in termini stipendiali fra il personale del comparto Ministeri – Agenzie fiscali, appartenente a ruolo ad esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9^ qualifica funzionale, tutti ormai inseriti nell’area contrattuale “C” dai CCNL 12.2.99 e 12.6.03, lungi dal determinare una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva, costituisce, anzi, attuazione della norma transitoria contenuta nello stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù della quale i dipendenti delle qualifiche ad esaurimento di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, artt. 60 e 61 (e successive modificazioni ed integrazioni) e quelli di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15, i cui ruoli sono contestualmente soppressi a far data dal 21.2.93, conservano le qualifiche medesime “ad personam”: ciò significa che tali qualifiche costituiscono una consapevole eccezione legislativa rispetto all’assetto ordinario, eccezione prevista dallo stesso testo (il D.Lgs. n. 165 del 2001) cui appartiene la norma (art. 45) che i ricorrenti assumono essere stata violata o falsamente applicata. (cfr. Cass. 27.10.11, n. 22437; Cass. 28.3.12, n. 4971); pertanto, la doverosa interpretazione sistematica impedisce l’estensione, al personale della 9^ qualifica funzionale, del trattamento stipendiale corrispondente a tali qualifiche sopravvissute “ad personam”, pena lo svuotamento dello stesso portato precettivo della summenzionata previsione transitoria, in un capovolgimento del normale rapporto tra norme transitorie e disposizioni a regime che comporterebbe un sostanziale (e inedito) allineamento (in termini di conseguenze sul piano retributivo) delle seconde alle prime.
2. Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 cpv. non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva. In altre parole, il principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal cit. art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede (cfr. Cass. 18.6.08 n. 16504; Cass. 19.6.08 n. 16676; Cass. 10.3.09 n. 5726; Cass. 12.3.09 n. 6027; Cass. 27.5.09 n. 12336).

[ Argomenta la Cassazione: <<A fortiori non sarebbe ipotizzabile nel caso di specie un contrasto della pattuizione collettiva con il (meno esteso) principio di non discriminazione, inidoneo a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo solo le specifiche previsioni normative contenute nell’ordinamento.
Nel corso degli anni non ne sono mancati esempi, come avvenuto con gli artt. 15 e 16 Stat., la L. n. 604 del 1966, art. 4, la L. n. 903 del 1977, artt. 1 e 3, la L. n. 125 del 1991, art. 4 (poi modificato dal D.Lgs. n. 196 del 2000, art. 8 ed ora trasfuso negli artt. 36 e ss. codice delle pari opportunità tra uomo e donna, vale a dire nel D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198), i D.Lgs. n. 215 del 2003 e D.Lgs. n. 216 del 2003 che hanno dato attuazione alle direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10.12.48), le Convenzioni O.I.L. nn. 111 e 117 (ratificate, rispettivamente, con L. 6 febbraio 1963, n. 405 e con L. 13 luglio 1966, n. 657), l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali (ratificato con L. 25 ottobre 1977, n. 881), il patto di New York 16-19.12.66, l’art. 69 del Trattato istitutivo della CECA, reso esecutivo in Italia con L. 25 giugno 1952, n. 766, l’art. 119 del Trattato istitutivo della CEE del 25.3.57, reso esecutivo con L. 14 ottobre 1957, n. 1203, la Carta sociale Europea, approvata il 18.6.61 e resa esecutiva con L. 3 luglio 1965, n. 929.
Nè il principio di parità nei termini invocati in ricorso potrebbe essere affermato sulla base di Corte cost. n. 103/1989 (mera sentenza interpretativa di rigetto), che all’autonomia organizzativa non illimitata del datore di lavoro contrappone proprio il potere di classificazione professionale dei lavoratori demandato ai contratti collettivi, secondo scelte non sindacabili dal giudice, mancando il parametro di giudizio cui rapportare siffatta verifica.
Alle argomentazioni esposte nei summenzionati arresti di questa S.C. possono aggiungersi – sempre a conferma della insindacabilità, da parte del giudice, di clausole del contratto collettivo cui si imputi una violazione del principio di parità di trattamento contenuto nell’art. 45 cpv. cit. – ulteriori riflessioni sulla scia dell’esperienza maturata a seguito di Cass. S.U. 17.5.96 n. 4570 (e successive conformi) e della stessa cit. Corte cost. n. 103/89 (pur entrambe relative al lavoro alle dipendenze di privati e non di pubbliche amministrazioni).
Orbene, pur a voler leggere nel modo più ampio possibile il principio di parità, se esso deriva (come affermato dalla cit. sentenza della Corte cost., che – com’è noto, ipotizzava anche interventi demolitori da parte del giudice sui contratti collettivi) dall’applicazione dell’art. 41 cpv. Cost., discende, come corollario, che è pregiudicata la pari dignità lavorativa se un dato trattamento economico deriva da autonome scelte imprenditoriali che siano espressione di quella libertà di iniziativa economica privata che l’art. 41 Cost. vieta possa svolgersi in contrasto con la dignità e la sicurezza umana.
E allora, quando la disparità trova titolo non nelle scelte in cui si estrinseca il potere direttivo del datore di lavoro (sia esso pubblico o privato), ma nelle pattuizioni dell’autonomia collettiva e in queste non si riscontrano finalità illecite, bensì mere valutazioni comparative, non ricorre più il conflitto del lavoratore con l’altrui iniziativa economica (che era alla base della motivazione della cit. sent. n. 103/89 della Corte cost.), ma, semmai, con l’autonomia negoziale delle parti collettive.
Attraverso quest’ultima si esprime un bisogno di solidarietà che impone il ricorso a discipline che coinvolgano vaste categorie cui assicurare più vantaggiose condizioni contrattuali (non solo in campo lavorativo), solidarietà che, in nome del sostegno alle fasce marginali del gruppo rappresentato, ridistribuisce in maniera meno differenziata risorse e/o sacrifici, tenendo conto anche delle compatibilità economico/finanziarie del momento.
Al contrario, la parità di trattamento – al di là delle apparenze – proprio perchè postula uguale trattamento ad uguali fattispecie e, per converso, differente trattamento per fattispecie diverse (unicuique suum), invece di “compattare” gli interessi dei rappresentati (come tende a fare, per lo più ed entro certi limiti, la contrattazione collettiva), finisce con articolarli in una gamma indefinita di distinguo, in proporzione diretta rispetto alla molteplicità delle situazioni.
In altre parole, il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall’esigenza di recuperare uguaglianza (nell’accezione non solidaristica sopra evidenziata) o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l’uso d’un potere privato all’interno d’una comunità organizzata.
Questo bisogno si manifesta – cioè – per colmare il vuoto di “contraddittorio” ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente.
Ma ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato.
Da ultimo, si tenga presente che la sede giurisdizionale non è certo la più adatta ad incidere su discrasie che magari trovano la propria ragion d’essere nella storia delle relazioni sindacali in un dato settore merceologico o in un determinato comparto pubblico: ad es., clausole che prevedano forme di disparità potrebbero essere state convenute per sanare – a loro volta – disparità anteriori, oppure per salvaguardare livelli retributivi di personale assorbito a seguito di operazioni di mobilità interaziendale o, ancora, di lavoratori appartenente a ruoli ad esaurimento, come nel caso in oggetto. In siffatte evenienze il giudice dovrebbe procedere a un’anamnesi delle relazioni sindacali e delle vicende aziendali o di comparto pubblico tanto elaborata e a vasto raggio da essere difficilmente compatibile con i margini dell’accertamento giudiziario, troppo angusti a cagione dei paletti imposti da petitum e causa petendi.>> ]