Mansioni superiori: il Consiglio di Stato accede alla tesi delle Sezioni Unite della Cassazione (C.d.S, sez. VI, 16/01/2015, n. 100).

Il Consiglio di Stato accede alla tesi delle Sezioni Unite della Cassazione sull’efficacia retroattiva dell’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, nella parte in cui ha previsto la generale retribuibilità delle mansioni superiori, mettendo dunque fine ai diversi orientamenti giurisprudenziali: nell’ipotesi di incarico formale su posto vacante di mansioni definibili superiori, anche in un periodo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 387 del 1998, è riconoscibile il diritto ad ottenere una remunerazione.

Nell’ordinamento del pubblico impiego, sino al d.lgs. n. 29/93, non esisteva, ad eccezione di particolari ambiti come quello della sanità, un principio generale di remunerazione delle mansioni superiori svolte ed espletate in forza di incarico formale e su posto vacante. Solo dopo la “privatizzazione”, il principio della remunerazione delle mansioni superiori svolte e quindi anche delle mansioni connesse alla reggenza, in caso sia di vacanza del posto in organico che di sostituzione del dirigente assunto, è stato introdotto dall’articolo 15 del d.lgs. n. 387 del 29 ottobre 1998: la norma ha attribuito rilevanza economica alle mansioni superiori (e quindi anche alla “reggenza”) – in caso di vacanza del posto in organico o di sostituzione di dipendente assente -, è entrata in vigore, a causa di proroghe dell’entrata in vigore, solo con il D. Lgs. n. 387 del 29.10.1998, articolo 15, (ossia dal 22.11.1998)

.Nella giurisprudenza amministrativa non si attribuiva efficacia retroattiva all’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, in quanto ritenuta norma non meramente di natura interpretativa, ma innovativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, n. 5683 del 23/9/2009, che ha confermato Tar Puglia n. 2286/2003; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria n. 6/2006 e nn. 10 e n. 11 del 2000; sez.V nn. 751, 1377, 1718 e 2355 del 2009; sez. VI n. 128 del 2009).

Sul punto, tuttavia, vi è un dissenso, almeno dominante, da parte della Cassazione civile che ha sostenuto (Cass. sez. lav., 4 febbraio 2008, n. 261 e Cass. 8 gennaio 2004, n. 91) quanto segue: “Nel pubblico impiego privatizzato il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal d.lg. n. 29 del 1993, art. 56 comma 6, come modificato dal d.lg. n. 80 del 1998 art. 25, è stato soppresso dal d.lg. n. 387 del 1998 art. 15 con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. La portata retroattiva della disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali“.

Sempre quanto al profilo temporale, si segnala che la Corte di Cassazione a Sezioni unite 11 dicembre 2007 , n. 25837, ha enunciato (in un caso di dipendente pubblico –Regione Umbria- che rivendicava differenze retributive per mansioni superiori svolte dal 1991 al 1998) il seguente formale “principio di diritto” (ex art. 384 comma 1° c.p.c.): “In materia di pubblico impiego – come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve, quindi, trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all’attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.

Per contro, si è detto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, con riguardo al periodo fino al 1998 si è, invece, attestata nel ritenere che “l’esercizio di mansioni superiori da parte di personale dipendente della Pubblica Amministrazione, ancorché con attribuzione per atto formale, non comporti alcun diritto, neppure per differenze retributive, salvo che ciò sia contemplato in espresse previsioni normative” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 23/03/2009, n. 1751; 18.9.2008, n. 4466; sez. IV, 26.9.2008; ma già C.d.S., Ad. plen., n. 22 del 18.11.1999; C.d.S., su citata Ad. Plen., n. 10 del 28.1.2000; sez.V, 26.4.2005, n. 1876).

Secondo il Consiglio di Stato, in sintesi, la disposizione di cui all’art. 36 Cost. non trova incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in tale ambito con altri principi di eguale rilevanza, ossia quelli del buon andamento e dell’imparzialità dell’Amministrazione, nonché con quello della rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 18 settembre 2009, n. 5605).

Per quanto riguarda l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale in materia, analizzando il rapporto fra disposizioni normative “proprie” del rapporto di pubblico impiego e l’art. 36 della Cost., nonché gli effetti delle nuove norme introdotte con la riforma del pubblico impiego (risalente al D.L.vo 29/1993), ed in particolare la portata dello “sbarramento” temporale imposto dalla normativa generale (e dalle norme di concreta attuazione) .

In più occasioni la Corte, con sentenze e ordinanze ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcuni TAR (Liguria, Puglia-Lecce; Abruzzo-Pescara), esprimendosi sempre nel seguente modo (assai sintetico) : “

Sono manifestamente infondate, in riferimento all’art. 36 cost., le q.l.c. dell’art. 33 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, nella parte in cui escluderebbe la retribuibilità dello svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego, in quanto la norma censurata si riferisce alla situazione fisiologica degli uffici e quindi, nel caso eccezionale di adibizione temporanea del dipendente a mansioni superiori, corrispondenti a un posto vacante, non si può argomentare a contrario una preclusione all’adeguamento del trattamento economico, in conformità agli artt. 36 cost. e 2126 c.c.” (ordd. 10 aprile 2002, n. 100; 6 novembre 2001, n. 349;18 ottobre 1996 , n. 347; e si veda sent. 31 marzo 1995, n. 101).

Dunque – con un ragionamento di richiami “a catena” tra le varie ordinanze/sentenze surrichiamate – la Corte ha ritenuto, con la richiamata sentenza 31 marzo 1995, n. 101, che: “il principio costituzionale di equivalenza della retribuzione al lavoro effettivamente prestato (contenuto nell’art. 36 cost. e anticipato già dall’art. 2126 c.c.) trova applicazione anche nel pubblico impiego e comporta il diritto del dipendente assegnato a mansioni superiori inerenti un posto vacante in organico, a percepire la relativa differenza stipendiale; detto principio non può subire restrizioni per l’astratta possibilità di abusi nell’assegnazione delle funzioni superiori, sicché non sussiste il denunciato contrasto con il principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 cost.

Nella pronuncia si sostiene espressamente che “la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alle funzioni di fatto espletate è un precetto dell’art. 36 Cost., la cui applicabilità all’impiego pubblico non può essere messa in discussione” (richiamando anche altra sentenza la n. 236 del 1992).

In sostanza, dunque, vi erano orientamenti in stridente contrasto:

-da un lato la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione affermano inequivocabilmente il principio di “retribuibilità” delle mansioni superiori anche nel pubblico impiego e anche per casi anteriori alla riforma (d.lgs. 29/1993) – cfr. cit. ord. Corte cost. n. 100/2002 -, in forza dell’applicazione diretta dell’art. 36 Cost.;

-dall’altro la giurisprudenza del Consiglio di Stato e dei Tar si è assestata sul principio, per il “preterito”, della “non retribuibilità”, eccetto i casi di norme che lo consentono espressamente (o, rectius, per casi ove la Corte costituzionale ha ritenuto, si sta parlando del pubblico impiego sanitario, di poter rendere applicabile il principio costituzionale, una volta scaduto il termine previsto dalla norma d,i riferimento); il diritto alla retribuzione comincerebbe ad operare solo con l’avvio (novembre 1998) del principio generalizzato contenuto nella riforma del 1993.

Infine, il diritto alle mansioni superiori – al di là delle previsioni dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 – può trovare riconoscimento non in occasione di brevi o saltuarie prestazioni vicarie, ma soltanto quando esse assumono rilevanza per la durata di un periodo di tempo apprezzabile e continuativo da stimare secondo criteri di ragionevolezza, la cui applicazione è affidata alla ponderata valutazione prima dell’Amministrazione e poi del giudice in caso di contenzioso.

La congruità della durata dell’espletamento delle mansioni definibili superiori, pur essendo importante per la definizione del riconoscimento del diritto alla retribuzione, non altrettanto però lo è per il quantum della medesima: a tal fine, gli orientamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione hanno ammesso un meccanismo compensativo diverso da quello di un computo assolutamente equivalente al trattamento di chi svolgerebbe istituzionalmente le mansioni superiori, purché ossequioso del principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 della Costituzione, osservato anche mediante la corresponsione di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di appartenenza.